martedì 6 febbraio 2018

Con – Tatto: abuso, trauma e le condizioni rogersiane dell'ascolto

L'abuso è una violazione. E' fiducia tradita. E' un entrare violento nella propria intimità, senza permesso. Parlare di abuso è molto difficile. C'è ancora un profondo velo omertoso che, spesso, tende a minimizzarne la portata. Minimizzazione o, nel peggior caso, misconoscimento che non facilita la rielaborazione da parte della vittima di ciò che è accaduto. L'impossibilità di un clima accogliente, autentico ed empatico (Rogers, 1957) non permette, altresì, alla vittima di parlare di ciò che ha subito. In tal senso, non è raro osservare che molte vittime, che hanno subito violenze in tenera età, parlino del loro trauma solo in età adulta.
 Ma il trauma non scompare, anzi...Torna, in altre vesti, se possibile ancora più forte di prima: può succedere che la vittima possa ripetere ciò che ha subito e tentare di rielaborare la ferita attraverso una sintomatologia specifica: flash – back, fughe ed amnesie dissociative, vere e proprie somatizzazioni e un iperattivazione dell'arousal (risposte fisiologiche eccitatorie abnormi rispetto alla portata dello stimolo. Ad esempio sentirsi minacciati ed incolumi in situazioni obiettivamente non pericolose). Non rare sono le manifestazioni di autolesionismo e la comparsa di disturbi psicopatologici, come disturbi di ansia e dell'umore, disturbi di personalità (Organizzazione Borderline di Personalità – Kernberg, 2000) e l'abuso e dipendenza da sostanze: tutti tentativi di dare un senso al non rievocabile, alla sopraffazione che irrompe come un lampo a ciel sereno, a vissuti non dicibili o pensabili, come sentimenti di indegnità, vergogna, colpa e rabbia. Chi non può ricordare e dare giusta legittimità a ciò che gli è successo è come se vivesse come un funambolo, che cammina su una corda altissima, in un precario equilibrio, e che rischia di sfracellarsi al suolo. L'unica differenza è che il funambolo conosce il pericolo, quale quello di cadere, mentre la persona abusata ha paura ed angoscia, senza comprendere il perché: la vittima di abuso sa che le è capitata una cosa molto grave, ma non ha tutti i pezzi necessari per mettere insieme il suo puzzle esistenziale, i suoi ricordi. Vive tutto attraverso il corpo e le emozioni percepite come minacciose. Da qui, la persona traumatizzata percepisce la realtà in modo sopraffacente ed impotente (Tardioli, 2010, appunti interni IACP), ossia con scarso empowerment personale (Rogers, 1977) e possibilità di cambiamento. Il tutto, accompagnato da un profondo senso di indegnità.
Come aiutare, allora, queste persone? La persona abusata porta un bagaglio di vissuti profondamente ambivalente: ciò che condanna a se stesso è l'incapacità, all'epoca dei fatti, di non essere riuscito a dire un fermo e deciso "NO!", di non essersi fermato in tempo...insomma di non essersi difeso e scappare. I racconti che entrano in una stanza di psicoterapia sono intrisi di angoscia e perciò è molto frequente che il professionista, che non ha simbolizzato correttamente dentro di lui l'angoscia e la paura rispetto a suddetti vissuti ambivalenti, cada in errori di comunicazione:
- può mostrarsi, lui per primo, ambivalente nella sua arte comunicativa: attraverso la parola esprime un suo vissuto, mentre con il corpo un altro. Ad esempio, senza rendersene conto, può assumere una posizione di difesa o uno sguardo giudicante o, mancando di ascolto empatico, può mettere in campo atteggiamenti salvifici (il terapeuta può colludere con le richieste di urgenza di guarigione o di accondiscendere alla soddisfazione dei bisogni del cliente, magari rendendosi sempre reperibile al di fuori delle sedute, per poi sentirsi defraudato dei suoi confini e, di conseguenza, arrabbiato e confuso, rischiando, in tal modo, di inquinare il setting, privandolo di coerenza, costanza e stabilità (elementi, questi, che mancano alla persona che ha subito un trauma);
- può mostrarsi incongruente, mettendo in atto quelle che Gordon (trad. it., 2005) ha definito barriere di comunicazione, come ad esempio la rassicurazione, che rappresenta una delle trappole più deleterie, per ciò che concerne il pericolo di reificazione del sentire del cliente. Se dico ad una persona che prova senso di colpa, ad esempio, "non è colpa tua", significa che, in primis, sto reificando un suo vissuto degno di essere legittimato ed elaborato ed, in secondo luogo, sto chiudendo un'importante esplorazione che, seppur difficoltosa e dolorosa, può permettere di rendere questa colpa digeribile e meno traumatica. La persona abusata necessita che chi sta davanti a lei sia capace di contenere il suo smarrimento, la sua vergogna e la sua colpa, senza sentirsi minacciata, devastata e distrutta dal racconto. Dire ad una vittima di abuso "Non è colpa tua", è comunicarle la nostra difficoltà a starci in quella colpa, amplificandone ancora di più la portata minacciosa e sopraffacente. E' come se la persona abusata iniziasse a pensare "se il terapeuta mi dice così, significa che ciò di cui parlo è una cosa gravissima. Una cosa talmente grave, da non poter essere ascoltata". Perciò, se l'accettazione o considerazione positiva incondizionata (Rogers, 1957) permette di far percepire alla persona traumatizzata un'accoglienza non possessiva, ma capace di contenere la sopraffazione, l'impotenza, la vergogna e tutto ciò che è intimamente collegato con l'abuso, la congruenza e l'empatia, d'altra parte, permettono un ascolto profondo e non reificante.
Nello specifico, come detto anche sopra, la corretta simbolizzazione dei vissuti permette al terapeuta sia di divenire quella persona degna di lealtà e fiducia nella relazione terapeutica (Rogers, 1961), sia di chiarire e confrontare (Kernberg, 1978; 2010), se necessario, il cliente su determinati aspetti percepiti dal terapeuta, appunto, come non chiari e confusi. L'empatia, d'altro canto (attraverso i rimandi che Rogers e Kinget – 1965 – 66 hanno ben descritto nella loro Opera, quali: riflesso semplice o reiterazione, riflesso del sentimento e delucidazione), consente la comprensione "come se" (Rogers, 1957) dei vissuti di disperazione e di dolore legati al trauma, scongiurando il pericolo di una pericolosa identificazione (quindi di perdita di empatia) con questi ultimi.
Riassumendo, l'abuso è una violazione, un sopruso della propria esistenza: la presa in carico e la relazione terapeutica devono, quindi, essere contraddistinte da fiducia, lealtà, saldezza ed empatia, affinché la persona possa sentirsi liberamente responsabile (Rogers, 1951) di esplorare la sua esperienza, senza interferenze ed ingerenze (comprese quelle di carattere salvifico) del terapeuta. Un ascolto, insomma, attento, delicato e capace, allo stesso tempo, di sostare nell'ambivalenza, nella confusione, nel caos, permettendosi, anche di confrontare il cliente, in modo autentico e senza difese professionalizzanti, su aspetti non comprensibili Un so – stare con – tatto.
© Francesca Carubbi
Dott.ssa Francesca Carubbi
psicologa - psicoterapeuta
www.psicologafano.com

domenica 20 dicembre 2015

Studio Daimon. Si effettuano percorsi di promozione del benessere e di crescita personale. Nello specifico:
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giovedì 28 maggio 2015

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martedì 4 novembre 2014

Il vissuto in psico-oncologia:l' ideale e il reale!

UN RICORDO PER SEMPRE


... ho bisogno di liberarmi di questo “fardello”...
.... ho bisogno, forse, di sentirmi utile per qualcuno...
Ecco perché ho deciso di scrivere! Potrebbe servire ad altri, che hanno vissuto o vivono la mia stessa dolorosa esperienza, come conforto!

Per fortuna riesco a non chiudermi in me stessa e ad essere forte.. a pensare che questa mia tragica esperienza possa essere di aiuto a qualcuno, così come io mi sento consolata e, in qualche modo, incoraggiata quando leggo di esperienze simili.

Tutto ebbe inizio nell'estate 2010. Eva si trova al mare. Infervorita dai preparativi per l'arrivo dei suoi figli, che avevano trascorso con i nonni un'intera settimana da soli.
Ricorda la gioia e il dolore, all'improvviso!
Un dolore forte; pungente.. persistente alla “sua” bocca. Lingua e gengiva doloranti.
Da quel momento tutta la “sua” vita è cambiata: controlli medici continui; incertezza; incredulità e l'ostinazione di voler credere ad una cosa banale. Fingere che tutto fosse normale, ma poi arrendersi e tornare a casa. Lontana dalla quiete e dalla serenità. Familiarizzare, immancabilmente, con la realtà sempre più cruda e sconvolgente.
Nel ricordo, rivivo la corsa frenetica a cercare soluzioni... angoscia, presentimenti e... purtroppo, nulla di infondato!
Nove mesi di agonia: chemio e radio. Le forze che, pian piano crollano... ma non quelle dell'anima!
Terapie, comunque, non efficaci. Si necessita di un intervento demolitivo, che mi ha strappato via lo sguardo e la parola”!
Nonostante tutto, dopo l'intervento, si riprese adeguatamente. Iniziò l'attesa snervante dell'esito delle analisi e... che fare? “Attrezzarsi” ed affrontare tutto ciò che ci aspettava.
Tutti coinvolti, anche se era lei a dover affrontare il nuovo calvario del percorso terapeutico/riabilitativo.
Lo smarrimento, l'incertezza del cosa fare. L'ansia per l'esito dell'operazione; lo struggimento e la pena per il dolore. Ritrovarsi ad affrontare ancora altre difficoltà. Il dopo... come riuscire a vivere come prima? “Non sono più la stessa. Non potrò più fare il mio lavoro... ma penso di avere avuto, comunque, il coraggio e vorrei poter trovare, ancora, tanta forza in me... non tanto per me, ma per i miei figli, perché loro sì che sono la mia vita!
Ha mostrato un coraggio ed una forza straordinari, fino all'ultimo! Grazie a quello straordinario coraggio e forza di volontà non si arrese mai e posso solo immaginare quanto le sia costato.
Non è giusto che io sia qui, nella mia casa, fuori l'odore straordinario della primavera, a permettermi il lusso di rimuginare sulla mia sofferenza e nulla più”.
Mai ha mostrato cedimenti, almeno evidenti, con gli altri. Preferiva evitare di lasciarsi andare, anche se un giorno mi ha detto: “sai che difficilmente piango? É difficile che io esterni le emozioni... sì sono dura, ma sensibile, direi”! Un modo per non cedere alla disperazione e nello stesso tempo per proteggere gli altri dalla pena.
Tutti abbiamo avuto una linea comune: cercare di coinvolgerla il più possibile in una vita normale.
Cercavamo di fare del nostro meglio: le stavamo vicino. Le parlavamo continuamente, ma il tormento più grande era il non sentirsi all'altezza, la sensazione frustrante di non riuscire a trovare le parole giuste al momento giusto. Ricorrevo ai messaggi scritti, alle lettere, cercando di chiarificarle che “scrivere è terapeutico: permette di esprimere facilmente le proprie emozioni, anche quando è difficile”!
Sono caparbia, però, e la voglia di essere ottimista non mi manca. Ci sono momenti in cui, a volte, mi aggiro smarrita per le stanze, gridando il mio dolore, altri di dignitosa compostezza e momenti di dignità raziocinante.
La consapevolezza di condividere la pena di molti non mi consolava più di tanto, ma mi dava forza.
Certo... sono stanca; stanca e vuota... e pensare di condividere la pena di molti non è poi una gran consolazione, al massimo posso pensare che come ce l'hanno fatta gli altri, ce la posso fare anch'io, perché non ho mai visto in effetti nessuno così totalmente disperato da rinunciare del tutto a vivere anche dopo un grande dolore, anche vivendo quotidianamente in un'ansia e una preoccupazione lacerante, come sembra debba essere il nostro futuro”.
Col passare del tempo, quanto più diventava evidente la gravità della situazione, tanto più cercava di armarsi di coraggio, per riuscire ad affrontare con presunzione, senza troppa difficoltà il momento degli adii e il dopo.
Quanto poi era preparata, lo vidi alla fine. Quel giorno, quel grigio mattino di fine aprile 2011, pareva adatto a dirle addio... e non posso più sentirla da allora senza provare una stretta al cuore.
Nell'immediato mi aggrappavo al pensiero delle persone care a cui dovevo in qualche modo dare conforto. La consolazione era che lei se ne era andata con dignità... era quasi la sua ossessione... in un ambiente bello, circondata da persone care.
Non è stato semplice affrontare, davvero, il dopo... dolore e disperazione, laceranti!
C'è la serenità con cui riesco a pensare a lei che, spesso, lascia il posto, all'improvviso, ad una sensazione di vuoto e perdita irreparabile: il dolore della mancanza, sofferta, dai suoi bambini.
Ricordo le sue parole: “non ci si rassegna, ci si abitua. Si cerca di continuare a vivere una vita normale, anche lieta, ma non è facile. A volte diventa una ricerca, anche febbrile, di distrazioni, interessi, a volta un'apatia che sfocia nella depressione”!
Credo, comunque, che si debba accettare questo alternarsi di momenti sereni e disperati. L'errore più grande è chiudersi in se stessi; bisogna avere il coraggio di chiedere aiuto, di aprirsi agli altri con umiltà, senza avere timore di mostrare la propria debolezza.
E poi, non bisogna dimenticare gli altri... ci può sempre essere qualcuno che ha bisogno di noi, qualcuno a cui tendere la mano e nel momento in cui si condivide la pena e si porta conforto ci si sente più forti, utili e migliori... perché è questo che avrebbe desiderato lei... alle soglie dei suoi soli 38 anni!


Dr.ssa Antonietta Albano

Psicologa e Pedagogista
Formazione in Sessuologia Clinica - Perfezionamento in Psicologia Giuridica.