Ma il trauma non scompare, anzi...Torna, in altre vesti, se possibile
ancora più forte di prima: può succedere che la vittima possa
ripetere ciò che ha subito e tentare di rielaborare la ferita
attraverso una sintomatologia specifica: flash – back, fughe ed
amnesie dissociative, vere e proprie somatizzazioni e un
iperattivazione dell'arousal (risposte fisiologiche eccitatorie abnormi
rispetto
alla portata dello stimolo. Ad esempio sentirsi minacciati ed
incolumi in situazioni obiettivamente non pericolose). Non rare sono le
manifestazioni di autolesionismo e la comparsa di disturbi
psicopatologici, come disturbi di ansia e dell'umore, disturbi di
personalità (Organizzazione Borderline di Personalità – Kernberg,
2000) e l'abuso e dipendenza da sostanze: tutti tentativi di dare un
senso al non rievocabile, alla sopraffazione che irrompe come un
lampo a ciel sereno, a vissuti non dicibili o pensabili, come
sentimenti di indegnità, vergogna, colpa e rabbia. Chi non può
ricordare e dare giusta legittimità a ciò che gli è successo è
come se vivesse come un funambolo, che cammina su una corda
altissima, in un precario equilibrio, e che rischia di sfracellarsi
al suolo. L'unica differenza è che il funambolo conosce il pericolo,
quale quello di cadere, mentre la persona abusata ha paura ed
angoscia, senza comprendere il perché: la vittima di abuso sa che le è
capitata una cosa molto grave, ma non ha tutti i pezzi necessari per
mettere insieme il suo puzzle esistenziale, i suoi ricordi. Vive tutto
attraverso il corpo e le emozioni percepite come minacciose. Da qui,
la persona traumatizzata percepisce la realtà in modo sopraffacente ed
impotente (Tardioli, 2010, appunti interni IACP), ossia con scarso
empowerment personale (Rogers, 1977) e possibilità di cambiamento.
Il tutto, accompagnato da un profondo senso di indegnità.
Come
aiutare, allora, queste persone? La persona abusata porta un bagaglio
di vissuti profondamente ambivalente: ciò che condanna a se stesso è
l'incapacità, all'epoca dei fatti, di non essere riuscito a dire un
fermo e deciso "NO!", di non essersi fermato in
tempo...insomma di non essersi difeso e scappare. I racconti che
entrano in una stanza di psicoterapia sono intrisi di angoscia e
perciò è molto frequente che il professionista, che non ha
simbolizzato correttamente dentro di lui l'angoscia e la paura
rispetto a suddetti vissuti ambivalenti, cada in errori di
comunicazione:
- può
mostrarsi, lui per primo, ambivalente nella sua arte comunicativa:
attraverso la parola esprime un suo vissuto, mentre con il corpo un
altro. Ad esempio, senza rendersene conto, può assumere una
posizione di difesa o uno sguardo giudicante o, mancando di ascolto
empatico, può mettere in campo atteggiamenti salvifici (il terapeuta
può colludere con le richieste di urgenza di guarigione o di
accondiscendere alla soddisfazione dei bisogni del cliente, magari
rendendosi sempre reperibile al di fuori delle sedute, per poi sentirsi defraudato dei suoi
confini e, di conseguenza, arrabbiato e confuso,
rischiando, in tal modo, di inquinare il setting, privandolo di
coerenza, costanza e stabilità (elementi, questi, che mancano alla
persona che ha subito un trauma);
- può
mostrarsi incongruente, mettendo in atto quelle che Gordon (trad.
it., 2005) ha definito barriere di comunicazione, come ad esempio la
rassicurazione, che rappresenta una delle trappole più deleterie,
per ciò che concerne il pericolo di reificazione del sentire del
cliente. Se dico ad una persona che prova senso di colpa, ad esempio,
"non è colpa tua", significa che, in primis, sto
reificando un suo vissuto degno di essere legittimato ed elaborato
ed, in secondo luogo, sto chiudendo un'importante esplorazione che,
seppur difficoltosa e dolorosa, può permettere di rendere questa
colpa digeribile e meno traumatica. La persona abusata necessita che
chi sta davanti a lei sia capace di contenere il suo smarrimento, la
sua vergogna e la sua colpa, senza sentirsi minacciata, devastata e
distrutta dal racconto. Dire ad una vittima di abuso "Non è
colpa tua", è comunicarle la nostra difficoltà a starci in
quella colpa, amplificandone ancora di più la portata minacciosa e
sopraffacente. E' come se la persona abusata iniziasse a pensare "se
il terapeuta mi dice così, significa che ciò di cui parlo è una
cosa gravissima. Una cosa talmente grave, da non poter essere
ascoltata". Perciò, se l'accettazione o considerazione positiva
incondizionata (Rogers, 1957) permette di far percepire alla persona
traumatizzata un'accoglienza non possessiva, ma capace di contenere
la sopraffazione, l'impotenza, la vergogna e tutto ciò che è
intimamente collegato con l'abuso, la congruenza e l'empatia, d'altra
parte, permettono un ascolto profondo e non reificante.
Nello
specifico, come detto anche sopra, la corretta simbolizzazione dei
vissuti permette al terapeuta sia di divenire quella persona degna di
lealtà e fiducia nella relazione terapeutica (Rogers, 1961), sia di
chiarire e confrontare (Kernberg, 1978; 2010), se necessario, il
cliente su determinati aspetti percepiti dal terapeuta, appunto, come
non chiari e confusi. L'empatia, d'altro canto (attraverso i rimandi
che Rogers e Kinget – 1965 – 66 hanno ben descritto nella loro
Opera, quali: riflesso semplice o reiterazione, riflesso del
sentimento e delucidazione), consente la comprensione "come se"
(Rogers, 1957) dei vissuti di disperazione e di dolore legati al
trauma, scongiurando il pericolo di una pericolosa identificazione
(quindi di perdita di empatia) con questi ultimi.
Riassumendo,
l'abuso è una violazione, un sopruso della propria esistenza: la
presa in carico e la relazione terapeutica devono, quindi, essere
contraddistinte da fiducia, lealtà, saldezza ed empatia, affinché
la persona possa sentirsi liberamente responsabile (Rogers, 1951) di
esplorare la sua esperienza, senza interferenze ed ingerenze
(comprese quelle di carattere salvifico) del terapeuta. Un ascolto,
insomma, attento, delicato e capace, allo stesso tempo, di sostare
nell'ambivalenza, nella confusione, nel caos, permettendosi, anche di
confrontare il cliente, in modo autentico e senza difese
professionalizzanti, su aspetti non comprensibili Un so – stare con
– tatto.
© Francesca Carubbi
Dott.ssa Francesca Carubbi
psicologa - psicoterapeuta
www.psicologafano.com
© Francesca Carubbi
Dott.ssa Francesca Carubbi
psicologa - psicoterapeuta
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