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Maggiori info: https://www.amazon.it/Paco-nuvole-borbottone-altri-racconti/dp/8865314869/ref=sr_1_1?ie=UTF8&qid=1531813035&sr=8-1&keywords=paco+le+nuvole …
Blog dedicato alla promozione di una serena sessualità ed affettività. Curato da: - Dott.ssa Francesca Carubbi, psicologa e psicoterapeuta rogersiana, Fano (PU) - Dott.ssa Antonietta Albano, psicologa e psicoterapeuta ed esperta in sessuologia clinica, Parma
martedì 17 luglio 2018
martedì 10 luglio 2018
"I fatti sono amici": l'errore in psicoterapia

venerdì 8 giugno 2018
Uscita libro "Paco, le nuvole borbottone e altri racconti"
Ci siamo! Da oggi il mio libro è acquistabile online e in libreria. Il
libro è dedicato a chi, occupandosi di educazione, vuole utilizzare la
Fiaba come strumento per supportare lo sviluppo emotivo del bambino.
Adatto per i genitori.
Per visionare la scheda: http://www.alpesitalia.it/scheda.cfm…
Adatto per i genitori.
Per visionare la scheda: http://www.alpesitalia.it/scheda.cfm…
mercoledì 21 marzo 2018
"Er fijio de' re, puorco". Una Fiaba popolare come elogio alla vitalità.

In tal senso, da un punto di vista psicologico, la Fiaba tradizionale e popolare si confà particolarmente nel divenire uno strumento di facilitazione dell'integrazione di quelle parti di sé, subcepite, intercettate e negate alla coscienza (Rogers, 1951), che hanno carattere di pericolo e minaccia per la coerenza e la stabilità della Struttura del proprio Sè (ivi). In altri termini, la schiettezza linguistica, dal carattere così immediato, spontaneo, a tratti cruento e, soprattutto, privo di quelle artificiosità tipiche delle novelle più conosciute a noi, permette di poter simbolizzare con meno paure ciò che di spontaneo, immediato, vero, ma anche di arcano e misterioso è in noi, all'interno del nostro Vero Sé (ivi), che, non dimentichiamo, comprende tutte quelle percezioni, modalità di costruzione dell'esperienza, e tutti quei valori, sentimenti che tendiamo a giudicare come mostruosi, alieni e, quindi, estranei. Ma che, se ci ostiniamo a relegarli in un angolo remoto della nostra identità, non faranno altro che remare contro di noi. Infatti, l'ascolto della nostra Saggezza Organismica e, conseguentemente, lo sviluppo ed il progredire della nostra Tendenza Attualizzante (ivi), della nostra pulsione vitalistica, non possono esimersi dall'integrare sia le nostre pulsioni mortifere, i nostri vissuti emotivi meno "nobili" (per lo meno come tendiamo a percepirli), come ad esempio rabbia, odio, invidia, gelosia, bensì le nostre fantasie più recondite e che reputiamo più vergognose ed inaccettabili. E la Fiaba fabrianese parla proprio di questo. Nello specifico, il racconto, in dialetto, narra le vicende di un giovane principe, che, di giorno fu un maiale, ma di notte tornò ad essere un bel ragazzo. Il principe, poiché volle una moglie, chiese la mano delle figlie del Mugnaio. Costoro, quando videro che il loro re - porco, a tavola, mangiava, appunto, come un maiale, arretravano inorridite. Allora, il re si vendicò uccidendole. L'ultima sposa, più consapevole e congruente (Rogers, 1957) non battè ciglio dinanzi al comportamento dello sposo/porco, ma, anzi, lo pulì perbenino, tanto che riuscì a trasformarlo in un bel giovane: "...e lia, che avea più giudizio de quell'antre je ro pulia co' 'na pezzetta per fallo magnà mejo. Dopo magnato giétte a letto; e a mezzanotte 'bbocca 'ntella cammera el giòane più biello del munno." (Gianandrea, Mannocchi, 1994, pag. 12). Traducendo: "... E lei, che aveva più giudizio delle altre lo aveva ripulito con una pezzetta per farlo mangiare meglio; ed a mezzanotte entrò nella camera il giovane più bello del mondo". Questo racconto, molto somigliante a "Barbablù", scritto da Perrault nel XVII secolo (una bellissima lettura psicologica è contenuta in "Donne che corrono coi Lupi" di C. Pinkola Estés, 1992), può divenire metafora del pericolo di soccombere, a causa di retaggi e pregiudizi culturali, a quelli che Pinkola Estés (1992) definisce "predatori della psiche", ossia a quelle modalità mortifere di autocensura, di non ascolto e sviluppo del proprio potenziale umano, della propria vitalità e creatività, intesa anche come energia corporea, sessuale ed affettiva, del proprio empowerment personale (Rogers, 1977). In termini simbolici, il puorco, può ben rappresentare, nello specifico, quegli aspetti vitalistici di piacere, soddisfazione e di passione, di desiderio, che non sempre riusciamo ad esprimere nel loro potenziale, a causa di inibizioni interiorizzate e di stereotipi socio - culturali. Riassumendo, l'ultima sposa è colei che ha potuto toccare con mano i suoi aspetti, finora relegati, senza venirne sopraffatta ed annientata, ma facendoli propri, dando vitale nutrimento al proprio vero ed organismico sé: la ragazza ha ridato luce, bellezza ed offerto legittimo spazio a quelle parti che, se fossero rimaste silente e distorte, avrebbero devitalizzato e mortificato la sua esistenza. La Luce non esiste senza Ombra e viceversa.
© Francesca Carubbi
psicologa - psicoterapeuta rogersiana
www.psicologafano.com
sabato 3 marzo 2018
Legame vs Vincolo. Per una lettura rogersiana del Legame d'Amore
“L’amore non dà nulla fuorché se stesso e non coglie nulla se non da se stesso.
L’amore non possiede, né vorrebbe essere posseduto poiché l’amore basta all’amore”
K. Gibran
L’amore non possiede, né vorrebbe essere posseduto poiché l’amore basta all’amore”
K. Gibran

© Francesca Carubbi
Dott.ssa Francesca Carubbi
psicologa e psicoterapeuta rogersiana
Fano (PU)
www.psicologafano.com
mercoledì 28 febbraio 2018
Gli uomini violenti
"Gli
uomini violenti" (Estratto dell'Articolo "LA VIOLENZA E LE SUE FORME DI
REATO: un'analisi attraverso il punto di vista psicosessuologico
“centrato sulla persona”- di Antonietta Albano e Francesca Carubbi.
Pubblicato su "Da Persona a Persona - Rivista di Studi Rogersiani,
giugno 2011, pp. 283 - 297)
Per ciò che concerne la tipologia degli uomini violenti o maltrattanti, a differenza di quello che si potrebbe immaginare, nella maggior parte dei casi, ci troviamo di fronte a uomini “normali” (Baldry, 2005), ovvero a individui che hanno una vita sociale normale, relazioni amicali e lavorative soddisfacenti: uomini insospettabili, provenienti da diversi contesti socio – culturali. Solo nell’8% dei casi questi uomini fanno uso abituale di alcol o di sostanze: in effetti, l’uso di sostanze stupefacenti non spiega i comportamenti violenti. Anzi, sono spesso gli stessi uomini a cercare un alibi per la loro violenza, giustificando il loro comportamento violento con l’uso di narcotici (Crowell, Burgess, 1996). In questo senso, Hirigoyen (2005) raccomanda di non considerare l’alcolismo come sinonimo di deresponsabilizzazione dal comportamento violento: infatti, tutti gli uomini che giustificano la perdita di controllo sono però capaci di tenerlo a bada in società o sul luogo di lavoro. A ciò si aggiunga che, in realtà, il comportamento violento non cessa con il cessare dell’uso di sostanze, al contrario, essendo più lucido, l’uomo maltrattante attua comportamenti violenti più mirati, deliberatamente selettivi (ad esempio, nel caso di violenze fisiche, è raro che l’uomo colpisca la donna al viso, in quanto le percosse lascerebbero segni inequivocabili di riconoscimento), aventi lo scopo di terrorizzare la partner. Come ricorda ancora Hirigoyen (2005), tutti i racconti delle vittime descrivono uomini che diventano irritabili senza motivo apparente. Sono di cattivo umore, si lamentano di aver dormito male e cercano, appunto, un’occasione per giustificare la loro irritabilità, evidenziando come la loro personalità soffra di una profonda ferita
narcisistica: il loro senso di fragilità e il loro senso di impotenza può portarli a voler dominare la loro compagna. In questo senso, si aspettano che le loro partners si prendano sulle spalle il peso delle loro tensioni, colmare le loro insicurezze e placare le loro angosce. Poiché, comprensibilmente, queste donne non possono riuscire in questo intento, esse divengono bersaglio della furia del compagno; in questo panorama, l’atto violento si innesta come un tentativo onnipotente di calmare la propria angoscia annichilente, attribuendo la responsabilità dei propri fallimenti alla donna, che viene percepita come l’unica responsabile della propria infelicità e angoscia esistenziale. In questo modo, il controllo sull’altro colma la loro mancanza di controllo interno. Ma questa angoscia interna è connessa anche alla paura di essere abbandonati: “il loro comportamento violento, in certi momenti, ha lo scopo di mantenere la donna al posto suo, in modo da non sentirsi dipendenti da lei, mentre in altri, quando sono terrorizzati dall’idea di essere lasciati, tentano di farsi perdonare e suscitano nella compagna un atteggiamento protettivo” (Hirigoyen, 2005, trad. it., pag. 126). Inoltre, sempre per il timore di essere abbandonati, gli uomini violenti ignorano che un rapporto di coppia sano abbia bisogno di una certa distanza psicologica, cercando, al contrario, una piena fusione con la partner. In questo tipo di rapporti, in cui i due partner si vivono come un tutt’uno, il minimo cambiamento in uno dei due mette a rischio la vita di coppia, e il partner si sforza, talvolta, con violenza a ristabilire l’equilibrio. Come possiamo notare, si tratta di un problema di “giusta distanza” relazionale: l’uomo violento vive la donna, alternativamente, come inesistente, non prendendola in considerazione, o troppo invadente, sminuendola o criticandola. Troppa vicinanza li spaventa, in quanto hanno paura di essere invasi, mentre, una lontananza percepita troppo grande riattiva in loro angosce abbandoniche. Per trovare un loro equilibrio, questi uomini hanno necessità di controllare, in ogni momento, a quale distanza debba tenersi la compagna da loro. Su questa scia, la conquista dell’autonomia da parte delle donne può essere vissuta da alcuni dei loro compagni come una minaccia alla loro immagine stereotipata di uomini forti, virili e potenti: se l’uomo, in confronto alla donna, si considera troppo fragile, può rispondere in modo violento, sottomettendola".
Copyright: Antonietta Albano - Francesca Carubbi
ACP - Alpes Italia
Per ciò che concerne la tipologia degli uomini violenti o maltrattanti, a differenza di quello che si potrebbe immaginare, nella maggior parte dei casi, ci troviamo di fronte a uomini “normali” (Baldry, 2005), ovvero a individui che hanno una vita sociale normale, relazioni amicali e lavorative soddisfacenti: uomini insospettabili, provenienti da diversi contesti socio – culturali. Solo nell’8% dei casi questi uomini fanno uso abituale di alcol o di sostanze: in effetti, l’uso di sostanze stupefacenti non spiega i comportamenti violenti. Anzi, sono spesso gli stessi uomini a cercare un alibi per la loro violenza, giustificando il loro comportamento violento con l’uso di narcotici (Crowell, Burgess, 1996). In questo senso, Hirigoyen (2005) raccomanda di non considerare l’alcolismo come sinonimo di deresponsabilizzazione dal comportamento violento: infatti, tutti gli uomini che giustificano la perdita di controllo sono però capaci di tenerlo a bada in società o sul luogo di lavoro. A ciò si aggiunga che, in realtà, il comportamento violento non cessa con il cessare dell’uso di sostanze, al contrario, essendo più lucido, l’uomo maltrattante attua comportamenti violenti più mirati, deliberatamente selettivi (ad esempio, nel caso di violenze fisiche, è raro che l’uomo colpisca la donna al viso, in quanto le percosse lascerebbero segni inequivocabili di riconoscimento), aventi lo scopo di terrorizzare la partner. Come ricorda ancora Hirigoyen (2005), tutti i racconti delle vittime descrivono uomini che diventano irritabili senza motivo apparente. Sono di cattivo umore, si lamentano di aver dormito male e cercano, appunto, un’occasione per giustificare la loro irritabilità, evidenziando come la loro personalità soffra di una profonda ferita
narcisistica: il loro senso di fragilità e il loro senso di impotenza può portarli a voler dominare la loro compagna. In questo senso, si aspettano che le loro partners si prendano sulle spalle il peso delle loro tensioni, colmare le loro insicurezze e placare le loro angosce. Poiché, comprensibilmente, queste donne non possono riuscire in questo intento, esse divengono bersaglio della furia del compagno; in questo panorama, l’atto violento si innesta come un tentativo onnipotente di calmare la propria angoscia annichilente, attribuendo la responsabilità dei propri fallimenti alla donna, che viene percepita come l’unica responsabile della propria infelicità e angoscia esistenziale. In questo modo, il controllo sull’altro colma la loro mancanza di controllo interno. Ma questa angoscia interna è connessa anche alla paura di essere abbandonati: “il loro comportamento violento, in certi momenti, ha lo scopo di mantenere la donna al posto suo, in modo da non sentirsi dipendenti da lei, mentre in altri, quando sono terrorizzati dall’idea di essere lasciati, tentano di farsi perdonare e suscitano nella compagna un atteggiamento protettivo” (Hirigoyen, 2005, trad. it., pag. 126). Inoltre, sempre per il timore di essere abbandonati, gli uomini violenti ignorano che un rapporto di coppia sano abbia bisogno di una certa distanza psicologica, cercando, al contrario, una piena fusione con la partner. In questo tipo di rapporti, in cui i due partner si vivono come un tutt’uno, il minimo cambiamento in uno dei due mette a rischio la vita di coppia, e il partner si sforza, talvolta, con violenza a ristabilire l’equilibrio. Come possiamo notare, si tratta di un problema di “giusta distanza” relazionale: l’uomo violento vive la donna, alternativamente, come inesistente, non prendendola in considerazione, o troppo invadente, sminuendola o criticandola. Troppa vicinanza li spaventa, in quanto hanno paura di essere invasi, mentre, una lontananza percepita troppo grande riattiva in loro angosce abbandoniche. Per trovare un loro equilibrio, questi uomini hanno necessità di controllare, in ogni momento, a quale distanza debba tenersi la compagna da loro. Su questa scia, la conquista dell’autonomia da parte delle donne può essere vissuta da alcuni dei loro compagni come una minaccia alla loro immagine stereotipata di uomini forti, virili e potenti: se l’uomo, in confronto alla donna, si considera troppo fragile, può rispondere in modo violento, sottomettendola".
Copyright: Antonietta Albano - Francesca Carubbi
ACP - Alpes Italia
mercoledì 7 febbraio 2018
Mercoledì 21 febbraio, ore 20, ci sarà il primo incontro, gratuito, di presentazione del ciclo di appuntamenti "Marte e Venere sulle Nuvole: riflessioni semi - serie sull'essere coppia oggi". Abbiamo pensato di dedicare questo primo incontro, non solo alla presentazione del ciclo di incontri, bensì ad un primo "assaggio" della modalità di conduzione, in termini di esperienza non solo di parola, bensì emozionale e corporea. Perché "semi - serie"? Perché pensiamo che si possa prendere la vita anche con sana ironia.
Programma:
- presentazione delle psicologhe - psicoterapeute e dei loro approcci;
- presentazione della finalità e della modalità di svolgimento degli incontri;
- esperienza di gruppo di parola e di classi di esercizi di bioenergetica.
Si consiglia abbigliamento comodo
Le iscrizioni (max 5 coppie) terminano martedì 20.
Vi aspettiamo!
Programma:
- presentazione delle psicologhe - psicoterapeute e dei loro approcci;
- presentazione della finalità e della modalità di svolgimento degli incontri;
- esperienza di gruppo di parola e di classi di esercizi di bioenergetica.
Si consiglia abbigliamento comodo
Le iscrizioni (max 5 coppie) terminano martedì 20.
Vi aspettiamo!
martedì 6 febbraio 2018
Perché scegliere un percorso di psicoterapia

Dott.ssa Francesca Carubbi
psicologa - psicoterapeuta
www.psicologafano.com
© Francesca Carubbi
Con – Tatto: abuso, trauma e le condizioni rogersiane dell'ascolto

Ma il trauma non scompare, anzi...Torna, in altre vesti, se possibile
ancora più forte di prima: può succedere che la vittima possa
ripetere ciò che ha subito e tentare di rielaborare la ferita
attraverso una sintomatologia specifica: flash – back, fughe ed
amnesie dissociative, vere e proprie somatizzazioni e un
iperattivazione dell'arousal (risposte fisiologiche eccitatorie abnormi
rispetto
alla portata dello stimolo. Ad esempio sentirsi minacciati ed
incolumi in situazioni obiettivamente non pericolose). Non rare sono le
manifestazioni di autolesionismo e la comparsa di disturbi
psicopatologici, come disturbi di ansia e dell'umore, disturbi di
personalità (Organizzazione Borderline di Personalità – Kernberg,
2000) e l'abuso e dipendenza da sostanze: tutti tentativi di dare un
senso al non rievocabile, alla sopraffazione che irrompe come un
lampo a ciel sereno, a vissuti non dicibili o pensabili, come
sentimenti di indegnità, vergogna, colpa e rabbia. Chi non può
ricordare e dare giusta legittimità a ciò che gli è successo è
come se vivesse come un funambolo, che cammina su una corda
altissima, in un precario equilibrio, e che rischia di sfracellarsi
al suolo. L'unica differenza è che il funambolo conosce il pericolo,
quale quello di cadere, mentre la persona abusata ha paura ed
angoscia, senza comprendere il perché: la vittima di abuso sa che le è
capitata una cosa molto grave, ma non ha tutti i pezzi necessari per
mettere insieme il suo puzzle esistenziale, i suoi ricordi. Vive tutto
attraverso il corpo e le emozioni percepite come minacciose. Da qui,
la persona traumatizzata percepisce la realtà in modo sopraffacente ed
impotente (Tardioli, 2010, appunti interni IACP), ossia con scarso
empowerment personale (Rogers, 1977) e possibilità di cambiamento.
Il tutto, accompagnato da un profondo senso di indegnità.
Come
aiutare, allora, queste persone? La persona abusata porta un bagaglio
di vissuti profondamente ambivalente: ciò che condanna a se stesso è
l'incapacità, all'epoca dei fatti, di non essere riuscito a dire un
fermo e deciso "NO!", di non essersi fermato in
tempo...insomma di non essersi difeso e scappare. I racconti che
entrano in una stanza di psicoterapia sono intrisi di angoscia e
perciò è molto frequente che il professionista, che non ha
simbolizzato correttamente dentro di lui l'angoscia e la paura
rispetto a suddetti vissuti ambivalenti, cada in errori di
comunicazione:
- può
mostrarsi, lui per primo, ambivalente nella sua arte comunicativa:
attraverso la parola esprime un suo vissuto, mentre con il corpo un
altro. Ad esempio, senza rendersene conto, può assumere una
posizione di difesa o uno sguardo giudicante o, mancando di ascolto
empatico, può mettere in campo atteggiamenti salvifici (il terapeuta
può colludere con le richieste di urgenza di guarigione o di
accondiscendere alla soddisfazione dei bisogni del cliente, magari
rendendosi sempre reperibile al di fuori delle sedute, per poi sentirsi defraudato dei suoi
confini e, di conseguenza, arrabbiato e confuso,
rischiando, in tal modo, di inquinare il setting, privandolo di
coerenza, costanza e stabilità (elementi, questi, che mancano alla
persona che ha subito un trauma);
- può
mostrarsi incongruente, mettendo in atto quelle che Gordon (trad.
it., 2005) ha definito barriere di comunicazione, come ad esempio la
rassicurazione, che rappresenta una delle trappole più deleterie,
per ciò che concerne il pericolo di reificazione del sentire del
cliente. Se dico ad una persona che prova senso di colpa, ad esempio,
"non è colpa tua", significa che, in primis, sto
reificando un suo vissuto degno di essere legittimato ed elaborato
ed, in secondo luogo, sto chiudendo un'importante esplorazione che,
seppur difficoltosa e dolorosa, può permettere di rendere questa
colpa digeribile e meno traumatica. La persona abusata necessita che
chi sta davanti a lei sia capace di contenere il suo smarrimento, la
sua vergogna e la sua colpa, senza sentirsi minacciata, devastata e
distrutta dal racconto. Dire ad una vittima di abuso "Non è
colpa tua", è comunicarle la nostra difficoltà a starci in
quella colpa, amplificandone ancora di più la portata minacciosa e
sopraffacente. E' come se la persona abusata iniziasse a pensare "se
il terapeuta mi dice così, significa che ciò di cui parlo è una
cosa gravissima. Una cosa talmente grave, da non poter essere
ascoltata". Perciò, se l'accettazione o considerazione positiva
incondizionata (Rogers, 1957) permette di far percepire alla persona
traumatizzata un'accoglienza non possessiva, ma capace di contenere
la sopraffazione, l'impotenza, la vergogna e tutto ciò che è
intimamente collegato con l'abuso, la congruenza e l'empatia, d'altra
parte, permettono un ascolto profondo e non reificante.
Nello
specifico, come detto anche sopra, la corretta simbolizzazione dei
vissuti permette al terapeuta sia di divenire quella persona degna di
lealtà e fiducia nella relazione terapeutica (Rogers, 1961), sia di
chiarire e confrontare (Kernberg, 1978; 2010), se necessario, il
cliente su determinati aspetti percepiti dal terapeuta, appunto, come
non chiari e confusi. L'empatia, d'altro canto (attraverso i rimandi
che Rogers e Kinget – 1965 – 66 hanno ben descritto nella loro
Opera, quali: riflesso semplice o reiterazione, riflesso del
sentimento e delucidazione), consente la comprensione "come se"
(Rogers, 1957) dei vissuti di disperazione e di dolore legati al
trauma, scongiurando il pericolo di una pericolosa identificazione
(quindi di perdita di empatia) con questi ultimi.
Riassumendo,
l'abuso è una violazione, un sopruso della propria esistenza: la
presa in carico e la relazione terapeutica devono, quindi, essere
contraddistinte da fiducia, lealtà, saldezza ed empatia, affinché
la persona possa sentirsi liberamente responsabile (Rogers, 1951) di
esplorare la sua esperienza, senza interferenze ed ingerenze
(comprese quelle di carattere salvifico) del terapeuta. Un ascolto,
insomma, attento, delicato e capace, allo stesso tempo, di sostare
nell'ambivalenza, nella confusione, nel caos, permettendosi, anche di
confrontare il cliente, in modo autentico e senza difese
professionalizzanti, su aspetti non comprensibili Un so – stare con
– tatto.
© Francesca Carubbi
Dott.ssa Francesca Carubbi
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