mercoledì 21 marzo 2018

"Er fijio de' re, puorco". Una Fiaba popolare come elogio alla vitalità.

"Er fijio de' re, puorco" è una Fiaba popo)lare marchigiana (Fabriano), che, sulla scia della Novella tradizionale, quindi non edulcorata nei suoi aspetti più grotteschi, licenziosi e spaventosi, cerca di esorcizzare ciò che è più estraneo dentro di noi  e, rispetto all'epoca della narrazione orale, anche i pericoli insiti in un ambiente, come quello della Terra di Marca, ostico e difficile, a causa della sua configurazione geografica e della sua continua lotta per la sopravvivenza, soprattutto per il Ceto Contadino (Rossi, 1994).
In tal senso, da un punto di vista psicologico, la Fiaba tradizionale e popolare si confà particolarmente nel divenire uno strumento di facilitazione dell'integrazione di quelle parti di sé, subcepite, intercettate e negate alla coscienza (Rogers, 1951), che hanno carattere di pericolo e minaccia per la coerenza e la stabilità della Struttura del proprio Sè (ivi). In altri termini, la schiettezza linguistica, dal carattere così immediato, spontaneo, a tratti cruento e, soprattutto, privo di quelle artificiosità tipiche delle novelle più conosciute a noi, permette di poter simbolizzare con meno paure ciò che di spontaneo, immediato, vero, ma anche di arcano e misterioso è in noi, all'interno del nostro Vero Sé (ivi), che, non dimentichiamo, comprende  tutte quelle percezioni, modalità di costruzione dell'esperienza,  e tutti quei valori, sentimenti che tendiamo a giudicare come mostruosi, alieni e, quindi, estranei. Ma che, se ci ostiniamo a relegarli in un angolo remoto della nostra identità, non faranno altro che remare contro di noi. Infatti, l'ascolto della nostra Saggezza Organismica e, conseguentemente, lo sviluppo ed il progredire della nostra Tendenza Attualizzante (ivi), della nostra pulsione vitalistica, non possono esimersi dall'integrare sia le nostre pulsioni mortifere, i nostri vissuti emotivi meno "nobili" (per lo meno come tendiamo a percepirli), come ad esempio rabbia, odio, invidia, gelosia, bensì le nostre fantasie più recondite e che reputiamo più vergognose ed inaccettabili. E la Fiaba fabrianese parla proprio di questo. Nello specifico, il racconto, in dialetto, narra le vicende di un giovane principe, che, di giorno fu un maiale, ma di notte tornò ad essere un bel ragazzo. Il principe, poiché volle una moglie, chiese la mano delle figlie del Mugnaio. Costoro, quando videro che il loro re - porco, a tavola,  mangiava, appunto, come un maiale, arretravano inorridite. Allora, il re si vendicò uccidendole. L'ultima sposa, più consapevole e congruente (Rogers, 1957) non battè ciglio dinanzi al comportamento dello sposo/porco, ma, anzi, lo pulì perbenino, tanto che riuscì  a trasformarlo in un bel giovane: "...e lia, che avea più giudizio de quell'antre je ro pulia co' 'na pezzetta per fallo magnà mejo. Dopo magnato giétte a letto; e a mezzanotte 'bbocca 'ntella cammera el giòane più biello del munno." (Gianandrea, Mannocchi, 1994, pag. 12). Traducendo: "... E lei, che aveva più giudizio delle altre lo aveva ripulito con una pezzetta per farlo mangiare meglio; ed a mezzanotte entrò nella camera il giovane più bello del mondo".  Questo racconto, molto somigliante a "Barbablù", scritto da Perrault nel XVII secolo (una bellissima lettura psicologica è contenuta in "Donne che corrono coi Lupi" di C. Pinkola Estés, 1992), può divenire metafora del pericolo di soccombere, a causa di retaggi e pregiudizi culturali, a quelli che Pinkola Estés (1992) definisce "predatori della psiche", ossia a quelle modalità mortifere di autocensura, di non ascolto e sviluppo del proprio potenziale umano,  della propria vitalità e creatività, intesa anche come energia corporea, sessuale ed affettiva, del proprio empowerment personale (Rogers, 1977). In termini simbolici, il puorco, può ben rappresentare, nello specifico, quegli aspetti vitalistici di piacere, soddisfazione e di passione, di desiderio, che non sempre riusciamo ad esprimere nel loro potenziale, a causa di inibizioni interiorizzate e di stereotipi socio - culturali. Riassumendo, l'ultima sposa è colei che ha potuto toccare con mano i suoi aspetti, finora relegati, senza venirne sopraffatta ed annientata, ma facendoli propri, dando vitale nutrimento al proprio vero ed organismico sé: la ragazza ha ridato luce, bellezza ed offerto legittimo spazio a quelle parti che, se fossero rimaste silente e distorte, avrebbero devitalizzato e mortificato la sua esistenza. La Luce non esiste senza Ombra e viceversa.

© Francesca Carubbi
psicologa - psicoterapeuta rogersiana
www.psicologafano.com



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